La filosofia in Italia
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Esiste una filosofia italiana? Non occorre esser molto scettici per dubitarne e molto paradossali per dir di no. Essendo povera la nostra filosofia sono scarsi anche gli studi sui nostri filosofi. Ci manca finora, per esempio, una storia generale del nostro pensiero, se tale non si voglia chiamare la vecchia compilazione del Poli. Nè può farne le parti un saggio che col titolo Philosophy in Italy ha pubblicato da poco GIOVANNI PAPINI nella nota rivista filosofica americana, The Monist (Chicago, The Open Court Publishing Co, 1903). Vi sono, in esso, delle lacune, delle insufficienze, delle aridità e forse i ristrettissimi limiti (32 pp.) impedivano il far di meglio. Inoltre il Papini fa l'erudito a malincuore e preferisce le idee alla bibliografia. In quel suo saggio, veramente, non c'è che una idea ed è quella della poca attitudine speculativa degli italiani. Non so se qualche epigono giobertiano di corta veduta lo sgriderà richiamandolo all'amor patrio ma è certo che la sua tesi non è difficile a sostenere quando si pensi che fra noi non c'è stata vera e propria tradizione filosofica (forse nel mezzogiorno?) mentre c'è stata per l'arte, per la letteratura e anche per la scienza. E chi non sa che le idee più rinnovatrici son nate e si sono affermate fuori d'Italia?
E chi potrebbe dire qual'è quel carattere filosofico nostro, quel colorito speculativo nazionale ch'è dato, ad esempio, dal razionalismo in Francia, dall'empirismo in Inghilterra e dal trascendentalismo in Germania?
Tesi facile, dunque, ma non inutile a riprendersi, magari per augurare e per tentare che le cose si volgano al meglio e che si possa creare in Italia un movimento che abbia caratteri propri, tendenze nuove, ardore speculativo e abbia vita meno ufficiale del dottrinarismo esanime delle RR. Università.
Sembra che il prof. GIOVANNI GENTILE sia meno pessimista di me su la filosofia italiana e forse perchè la conosce meglio. Sarà luì, infatti, che ci darà l'attesa storia del nostro pensiero. Il suo primo lavoro (Rosmini e Gioberti. Pisa, Nistri, 1898) fu un libro sui filosofi italiani e tale è il suo ultimo, giuntomi in questi giorni: Dal Genovei al Galluppi (Napoli, ediz. della «Critica», 1903). Sono una serie di saggi sui filosofi meridionali dalla metà del secolo XVIII alla metà del XIX, e s'occupano del Genovesi ([712-1769), del Delfico (1744-1835), del Lauberg (1762-1834), del Borrelli (1782-1849), di F. P. Bozzelli (1786-1864), del Galluppi (1770-1846) e del Colecchi (1773-1847). Il Gentile conosce bene e da vicino tutti quei buoni e mal noti filosofi, e sa pure dei minori e ne ha lette le opere. Non è la cultura che gli manca e neppure l'amore. Anzi direi che la simpatia è troppa e che il Gentile tende forse a dare eccessiva importanza ad onesti pensatori, che furono il più delle volte dei semplici manipolatori e volgarizzatori d'idee venute di là dai monti e dai mari. Qual'è, in tutto il libro, l'idea veramente nuova che quei filosofi hanno data al pensiero nostro? Il Gentile, ch'è un galantuomo, è obbligato a ogni passo a indicare le fonti e a citare i creditori più in vista, che si chiamano Condillac, Locke, Volney, Cabanis, Reid, Cousin e Kant. Si tratta di ripetizioni, di prolungamenti, di critiche, di combinazioni, ma non si vede quello che i nostri abbian dato di proprio e di vivo.
Il libro del Gentile, date l'intenzioni sue prevalentemente storiche, è fatto bene: non c'è niente da dire. È pieno di riassunti ben fatti, di richiami preziosi, di notizie interessanti. Ma dice poco, e dei filosofi e di lui. Perchè se il Gentile vuol far lo storico, non sceglie soggetti più importanti, magari di filosofia straniera, ch'è pur si mal nota fra noi?(1) O piuttosto, perchè il Gentile, invece di fare il narratore del pensiero altrui, non ci dà, egli che ha l'amore della speculazione idealista, qualche saggio teorico che sia un più personale prodotto del suo pensiero?
(1) Nell'ultimo n. della Critica, il Gentile promette un'opera vasta sul pensiero hegeliano. Speriamo che sia cumpiuta fra breve: ci servirà per determinate bene la nostra posizione rispetto ad Hegel.
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